Questa intervista è stata pubblicata originariamente in arabo sulla Rivista degli atei arabi (Majalla al-Mulhidin al-Arab) – numero 36, Novembre 2015. L’intervista completa è disponibile anche in inglese sul sito al-bab.com, qui ne riportiamo un estratto a cura e traduzione di Giordano Vintaloro.
Brian Whitaker è un giornalista inglese che ha lavorato per il quotidiano britannico The Guardian dal 1987 al 2012 e ne è stato caporedattore per il Medio Oriente tra il 2000 e il 2007. Si è laureato in Studi arabi all’Università di Westminster. Scrive ancora occasionalmente per il Guardian e ha un suo sito specializzato in questioni mediorientali, al-bab, “una porta aperta sul mondo arabo”.
La sua esperienza in materia mediorientale è lunga e variegata: ha scritto su molte questioni sociali che non trovano spazio nei grandi media occidentali, i quali di solito si focalizzano sulle notizie militari e politiche e tralasciano gli aspetti quotidiani della vita araba. Ha scritto della corruzione, della burocrazia, della libertà di parola, della persecuzione dei giornalisti, dell’istruzione e di molto altro.
Oltre ad essere giornalista e caporedattore, Whitaker ha scritto diversi libri di analisi e critica della vita araba. Tra i suoi libri “L’amore che non si può dire. Storie mediorientali di ragazzi e ragazze” (“Unspeakable Love: Gay & Lesbian Life in the Middle East”), tradotto anche in arabo; “What’s Really Wrong with the Middle East” (“Cosa davvero non va in Medio Oriente”, 2009), recentemente tradotto in arabo. L’anno scorso ha scritto “Arabi senza Dio”, da poco tradotto in arabo. In questo libro documenta con ricchezza di dettagli ciò che gli atei e gli apostati devono sopportare nei paesi arabi e fornisce un’ampia panoramica delle leggi che regolano l’apostasia in questi paesi, assieme a riferimenti a studi e statistiche riguardanti l’ateismo tra gli arabi, e a un excursus storico che aiuta a vedere la situazione attuale in prospettiva.
D2: La Rivista e la nostra comunità si congratulano con te per la recente pubblicazione dell’edizione araba del tuo libro “Arabi senza Dio”. Si tratta di un libro unico per la sua audacia, ampiezza e profondità di analisi di un argomento tabù che viene raramente discusso con tale apertura. Potresti dirci qualcosa sul perché hai deciso di scriverlo? Quanto è durata la fase di ricerca e scrittura?
Avevo letto di alcuni casi isolati di arabi atei che avevano avuto dei problemi – persone come Alber Saber in Egitto e Waleed al-Husseini in Palestina – e nell’agosto 2013 ho visto un servizio sugli atei della regione che stavano acquisendo visibilità. Ho scritto un post su questo e ho invitato i lettori atei a farmi conoscere le loro storie. Alcuni mi hanno scritto delle mail che ho postato sul blog, e questo mi ha dato l’idea di scrivere un libro.
In seguito ho passato diversi mesi a raccogliere articoli e informazioni sugli atei in maniera piuttosto discontinua e a pensare a come avrei potuto dar loro la forma di un libro. Quando sono riuscito a stilare un piano di lavoro convincente ho deciso di sospendere tutti gli altri impegni che avevo e ho fatto tre mesi intensi di interviste e scrittura. Quindi tutta la cosa, dall’idea iniziale al libro finito, mi ha preso circa un anno.
D3: È evidente che il tuo interesse negli affari arabi è di lunga data. Che cosa ti attirato all’inizio verso quest’area, e come sei diventato un giornalista specializzato in Medio Oriente?
Mi sono sempre piaciute le lingue e dopo aver finito la scuola ho studiato Latino all’università di Birmingham. Nel 1980 ho cominciato a lavorare per la redazione economica del Sunday Times e il giornale mi ha mandato per qualche giorno in Tunisia per raccontare degli investimenti esteri nel paese. Non è stato un granché e si è trattato più che altro di un giro delle fabbriche ma era il mio primo viaggio in un paese arabo e mi fatto nascere la curiosità di imparare un po’ di arabo.
Poi mi sono iscritto a un corso universitario di arabo in quella che ora è l’università di Westminster. All’epoca si potevano seguire le lezioni di sera, dopo il lavoro.
L’argomento della mia tesi alla Westminster erano i risultati diplomatici dell’OLP ma presto mi sono reso conto che volevo occuparmi professionalmente di Medio Oriente, e scrivere su Israele e Palestina non sarebbe stato un buon inizio dato che ci sono già un mucchio di persone che lo fanno e la maggior parte delle cose che si possono dire sull’argomento sono già state dette.
Questo è probabilmente il motivo che mi ha spinto a cercare cose meno ovvie di cui parlare e nel 1991, quando lavoravo al Guardian, ho convinto il direttore a mandarmi in Yemen. Il Nord e il Sud si erano appena unificati e il paese si stava avviando a sperimentare una democrazia multipartitica. Era una fase molto interessante (presto degenerato) che però aveva ricevuto poca attenzione dai media occidentali.
Ho continuato a seguire gli avvenimenti in Yemen e negli anni successivi ne ho scritto regolarmente per la rivista Middle East International, dato che non c’erano spazi per parlarne sul Guardian.
Nel frattempo passavo gran parte delle mie ferie viaggiando per i paesi arabi – Tunisia, Marocco, Egitto e Giordania. Questo mi ha permesso di osservare le cose con più libertà e parlare con molte persone comuni, in un modo che raramente succede se sei lì come un giornalista al lavoro che ha scadenze da rispettare.
Nel 2000 al Guardian si è liberato il posto di corrispondente dal Medio Oriente e mi è stato offerto, probabilmente perché conoscevo l’arabo.
D4: Riallacciandoci alla domanda precedente, quali opinioni hai cambiato da quando hai cominciato a occuparti di Medio Oriente, e cosa ne pensi della visione stereotipata del Medio Oriente che viene spacciata dagli orientalisti: è cambiata di molto nel corso dell’ultimo secolo?
Come molti occidentali che si sono interessati al Medio Oriente, penso che per me sia cominciata come una specie di fascinazione – la voglia di esplorare le differenze culturali e di capirle. Nel tempo sono diventato molto più critico ma cerco di criticare da una prospettiva araba – ascoltando le lamentele degli arabi sulle loro società piuttosto che quelle che arrivano dagli occidentali. A volte penso sia più facile per uno straniero esprimere queste critiche: gli arabi possono dar voce alle loro frustrazioni in modo molto forte nelle conversazioni private ma spesso si sentono inibiti quando arriva il momento di dire le stesse cose pubblicamente.
Per quanto riguarda l’orientalismo, farei una distinzione tra il vecchio tipo di orientalismo di cui scriveva Edward Said e quello che vediamo oggi. Anche se è in parte basato su fantasie, non sono sicuro che il vecchio tipo sia così dannoso quanto spesso s’immagina. Ad esempio, il genere di dipinti orientalisti che Said criticava oggi sono popolari tra gli arabi del Golfo, quindi è chiaro che non vengono giudicati criticabili. In alcuni posti gli arabi hanno adottato l’orientalismo e l’hanno trasformato in un’industria del patrimonio culturale. A Marrakech, ad esempio, migliaia di persone si guadagnano onestamente da vivere vendendo l’orientalismo ai turisti – ed è giusto così.
Ma c’è un genere più pericoloso di orientalismo – quello moderno – che vede certe “tradizioni” culturali (alcune delle quali inventate abbastanza di recente) come tipiche delle società arabe, e che in quanto tali non dovremmo cercare di cambiare. Sto parlando del genere di orientalismo che è popolare tra i progressisti in occidente e che considera la dittatura o il predominio religioso come in un certo senso autenticamente arabi.
D7: Arabi senza Dio è stato tradotto in italiano e poco tempo fa è finalmente uscito in arabo. Potresti dire ai nostri lettori come possono fare per ottenere il libro?
L’edizione araba si può leggere in HTML o scaricare gratuitamente come file word o pdf dal mio sito. L’edizione inglese si può acquistare su Amazon in ebook o cartaceo. L’edizione italiana si può acquistare online su Corpo60.it e sui maggiori store online. [Disponibile in ebook e cartaceo. L’edizione araba si può scaricare gratuitamente anche su Corpo60.it, NdT].
D9: Nella realtà del mondo arabo post-primavere e con l’ascesa dell’ISIS, che ruolo può giocare l’ateismo nella società? Gli atei potranno assumere un ruolo attivo invece della loro tradizionale passività? La persecuzione potrà diventare un’integrazione di qualche tipo che permetta agli atei di giocare un ruolo costruttivo nella società?
Per essere realisti, non prevedo che gli atei potranno giocare nessun ruolo di primo piano in tempi brevi. Questo non vuol dire che gli atei non siano importanti, ma in questo caso rappresentano più il sale che la sostanza del piatto.
In termini strategici dovrebbero imparare molto dall’attivismo LGBT. È vitale avere un certo grado di visibilità e mostrare che l’ateismo non si può abolire o eliminare (come le autorità egiziane e saudite hanno detto di voler fare). Senza visibilità non c’è speranza di acquisire più diritti o di diventare accettati come normali esseri umani.
Gli atei hanno ovviamente anche un ruolo nelle campagne per la libertà di pensiero e nella fondazione di stati laici. Uno degli argomenti che riprendo nel libro è che per ottenere questi risultati gli atei dovranno lavorare alleandosi con i credenti – con quei credenti che vedono benefici anche per loro stessi nella libertà di pensiero e nello stato laico.
D11: La cifra più impressionante che citi è forse il numero di persone non religiose in Arabia Saudita. Quante sono e in che modo dobbiamo interpretare questo numero? Perché i funzionari del Regno hanno accettato questa cifra invece di contestarla o semplicemente ignorarla?
L’Arabia Saudita mi ha sorpreso molto considerato che è da tutti ritenuta un paese religiosissimo. Di quelli che sono stati intervistati nel Regno, il 19% ha detto di non essere religioso e il 5% si sono descritti come atei convinti. La percentuale di atei dichiarati era più alta in Arabia Saudita che in qualsiasi altro paese a maggioranza musulmana interessato dall’indagine.
Va detto che questa indagine [WIN/Gallup] è stata condotta solo nelle città, e non è chiaro se gli intervistati fossero tutti cittadini sauditi o se includesse anche stranieri residenti nel Regno.
La cosa interessante però è che i sauditi non hanno contestato le cifre ma al contrario hanno iniziato a discutere sui modi per dissuadere le persone dal lasciare l’Islam.
D12: Una delle idee che di recente ha cominciato a circolare è la supposta correlazione tra l’ascesa dell’ISIS e l’aumento del numero di atei. Quanto stretto è il legame che c’è tra loro? E in generale, secondo le tue ricerche oggi quali sono i fattori principali che generalmente spingono gli arabi a lasciare la loro religione?
Generalmente il primo passo verso l’ateismo è quando gli arabi cominciano a mettere in discussione alcuni aspetti degli insegnamenti religiosi che vedono come illogici. Ad esempio, perché Dio dovrebbe punire i non credenti se si comportano onestamente? Molti cominciano cercando sinceramente delle risposte ma risposte non ne trovano e allora cominciano a fare altre domande.
In questo senso, il viaggio verso l’ateismo è fondamentalmente un processo intellettuale. Nessuno di quelli con cui ho parlato ha nominato l’ISIS o il terrorismo islamico come fattore. Tuttavia è possibile che il fanatismo renda alcune persone meno religiose nel senso di non voler passare molto tempo nella loro moschea locale.
D14: I social media hanno giocato un ruolo chiave negli sconvolgimenti politici che la regione ha vissuto durante gli ultimi anni, dobbiamo aspettarci un percorso simile per l’ateismo arabo, che parta da internet e si manifesti poi nella realtà?
Questa è una domanda molto interessante: come si manifesta di preciso l’ateismo? Vivere come atei in sostanza vuol dire NON fare delle cose – non pregare, non andare alla moschea o in chiesa, ecc. Quindi per alcune persone potrebbe non esserci la necessità di manifestarlo; potrebbe essere qualcosa che è solo dentro di loro. Naturalmente potrebbero volere condividere i loro pensieri con altri e in questo caso internet è il posto più logico per farlo.
Ma c’è anche la questione dei diritti degli atei. Nei paesi arabi specialmente può essere difficile non avere a che fare con la religione e questo potrebbe portare a un attivismo sul territorio – per esempio a proposito degli elementi obbligatori della religione, dalle leggi contro l’apostasia e la blasfemia a un estremo fino al digiuno forzato durante il Ramadan e l’insistenza sul matrimonio religioso a un livello più quotidiano. Abbiamo già visto diverse proteste contro il digiuno obbligatorio in Marocco e Algeria, e in Libano le persone che hanno portato avanti campagne per il matrimonio civile.
D15: Se volessi riassumere il messaggio del tuo libro in poche parole, cosa diresti?
Il libro guarda all’ateismo come fenomeno dei paesi arabi e lo utilizza per costruire una discussione generale sulla libertà di pensiero e di culto. Non vuole cercare di convertire nessuno all’ateismo.
D17: Potrebbe essere un po’ presto per chiederlo, ma il tuo libro ha provocato reazioni dalle autorità governative o religiose arabe? Come ti aspetti che verrà accolto?
Finora nessuna reazione. Se hanno un po’ di buon senso lo ignoreranno.
D18: Le tue ricerche sull’ateismo arabo fanno forse parte di una questione più ampia di cui ti sei interessato, ossia la mancanza di tolleranza religiosa nei paesi musulmani, la quale tipicamente sfocia nella persecuzione delle minoranze. Hai detto in un articolo dell’anno scorso che i paesi arabi condividono con l’ISIS buona parte dell’ideologia, inclusa la condanna dell’apostasia. Ti aspetti che l’ascesa dell’ISIS possa influenzare i cosiddetti moderati musulmani che condannano le azioni dell’ISIS nell’applicazione della shari’a islamica in questioni come l’apostasia, o non ci saranno reazioni?
Il vero problema è l’intolleranza. A un certo punto gli arabi dovranno riconoscere che nessuno – governo, comunità o singoli – ha titolo per imporre le proprie regole religiose sugli altri. È il solo modo in cui i conflitti religiosi della regione possano essere mai risolti ma penso che parecchie persone, compresi quelli che chiami musulmani moderati, sentano che sia ancora troppo difficile affrontare tutto ciò.
La differenza tra l’ISIS e la maggior parte dei paesi arabi è più una questione di sfumature che di principi. Molti musulmani sono inorriditi dalle punizioni dell’ISIS ma allo stesso tempo non troviamo molti arabi che dicano che i paesi non debbano fare niente per proteggere o promuovere la religione.
In effetti, il comportamento dell’ISIS tende a far sembrare le politiche religiose degli stati arabi meno irragionevoli. Se interrompi il digiuno durante il Ramadan l’ISIS ti uccide ma gli Emirati ti fanno “solo” una multa o ti mettono dentro per un po’.
D22: L’interesse dell’Occidente per l’Oriente ha una lunga storia che è passata attraverso molte fasi. Oggi vediamo che l’interesse è diventato più reciproco, profondo e parecchio più intricato, e l’interazione è resa più facile attraverso le tecnologie della comunicazione, ma dalla tua prospettiva privilegiata ci sono degli aspetti importanti dell’Oriente che i media mainstream occidentali non considerano? E di converso, ci sono delle cose sull’Occidente che l’arabo tipo non conosce ma vorresti che sapesse?
Parecchi media occidentali sembrano incapaci di riportare gli eventi del Medio Oriente come notizie in sé. Nei media USA in particolare, la cronaca è pesantemente impostata sugli interessi di politica estera: “Cosa significa questo per l’America?” e “Cosa sta facendo l’America per questo?”
Quindi da una parte c’è questa sensazione che molti dei problemi della regione siano in realtà problemi dell’America – il che ovviamente scoraggia gli arabi dal tentare di risolvere queste cose da sé. Vale la pena ricordare che la rivoluzione tunisina, quella che ha avuto più successo tra le Primavere arabe, è stata quella in cui gli USA e le altre potenze straniere sono state meno coinvolte.
Dall’altra parte, gli sviluppi che non sono considerati come direttamente riguardanti la sicurezza americana o i temi della loro politica estera, tendono a sparire dai radar. Un esempio classico è lo Yemen, dove gli USA si sono a tal punto incaponiti a condurre attacchi con i droni contro al-Qaeda che praticamente non si sono accorti che l’intero paese si stava sfasciando.
Per quanto riguarda la percezione araba dell’Occidente, molti si sorprendono quando gli dico delle lunghe battaglie che sono state combattute nei paesi occidentali per la libertà di espressione, le libertà sessuali e così via – in alcuni casi solo pochi anni fa. Soltanto nel 1928 le donne inglesi hanno acquisito gli stessi diritti di voto degli uomini. Nel Regno Unito si poteva essere condannati a morte per omosessualità (almeno in teoria) fino al 1861 e il sesso in privato tra uomini consenzienti è diventato legale solo nel 1967. L’ultimo processo per blasfemia in Gran Bretagna si è tenuto nel 1977, e la stessa legge sulla blasfemia è stata formalmente abolita solo nel 2008.
D28: Il presidente egiziano al-Sisi ha reso ripetutamente delle dichiarazioni che sembrano mostrare tolleranza per gli atei e la loro causa. Alla luce di questo, e tenendo conto della campagna di al-Azhar contro l’ateismo e della recente sentenza contro Islam Beheri [presentatore TV egiziano condannato a cinque anni per diffamazione della religione, NdT], in che direzione pensi si stia andando?
Quasi tutti i regimi arabi promuovono una versione dell’Islam che serve ai loro scopi politici, e il regime di al-Sisi non fa eccezione. Per quanto riguarda la dottrina, la versione di al-Sisi è una via di mezzo piuttosto blanda ma può essere usata per soffocare il dibattito da entrambe le ali, liberale e conservatrice, rispetto al suo punto di riferimento centrista. Per quanto possa essere moderato ideologicamente, nella pratica non favorisce la libertà di pensiero in Egitto né contribuisce alla risoluzione dei problemi religiosi e settari del paese. C’è bisogno di un dibattito più aperto su queste cose, non meno. Il modo per sconfiggere la Fratellanza musulmana non è la repressione ma la vittoria nella battaglia delle idee.
C’è anche la sindrome del capro espiatorio in cui i gruppi marginalizzati – Baha’i, LGBT, atei, ecc. – vengono incolpati dei problemi dell’Egitto. Mosse del genere possono essere istigate dal regime stesso, o dai media o da esponenti religiosi. Tuttavia, l’esperienza suggerisce che questi attacchi possono essere respinti se un numero sufficiente di persone reagisce e li condanna – basti vedere due recenti esempi con la detenzione di Hossam Bahgat da parte dei militari e la criticatissima “rivelazione” in TV di una sospetta attività gay in un hammam.
D29: In un articolo che hai scritto nel 2006 sul Guardian hai parlato della discriminazione nella società araba nei confronti dei non musulmani, in cui spiegavi come il discutere esplicitamente della questione per loro sia un argomento tabù. La situazione è però diversa quando si tratta di atei e omosessuali, la cui stessa esistenza non è nemmeno riconosciuta. Se membri di entrambi i gruppi si esponessero pubblicamente e agissero in modo compatto, questo potrebbe cambiare qualcosa nel tipico ambiente tribale arabo?
La questione di fondo è che i paesi arabi non sono bravi a trattare le diversità. Vengono viste come un problema o un imbarazzo piuttosto che una potenziale fonte di ricchezza sociale. Una risposta è mettere queste differenze sotto il tappeto e non parlarne. Un’altra è di ridurre la possibilità di conflitto tenendo separati i diversi gruppi etnici e le sette. È una reazione d’impulso ed è uno dei motivi per cui si sentono ora tanti discorsi sulle partizioni di Libia, Siria, Iraq e Yemen.
Vengono fatti pochissimi sforzi per escogitare modi migliori di vivere insieme. I regimi non hanno molti incentivi a contrastare questo modo di fare perché nel breve termine (secondo il principio del “divide et impera”) può aiutarli a mantenere il controllo, anche se sul lungo termine rende le cose peggiori.
Spesso poi si riscontrano delle affermazioni di superiorità tra i gruppi etnici o le sette dominanti che vengono poi usate per legittimare la discriminazione degli altri.
In relazione a questo, nei posti in cui le idee democratiche hanno cominciato a fare presa, il concetto di democrazia è ancora piuttosto immaturo. Lo abbiamo visto col governo Morsi in Egitto, un atteggiamento prepotente tipico del vincitore che si prende tutto. È vero che l’elemento base della democrazia è la volontà della maggioranza ma un’interpretazione più raffinata include anche la protezione delle minoranze.
Oltre a questo, non sono sicuro che le società arabe vedano gli atei e le persone LGBT allo stesso modo delle minoranze religiose ed etniche. L’etnia non è qualcosa che si sceglie – ci si nasce – e nel Medio Oriente si applica lo stesso principio alle sette religiose. D’altro canto, l’omosessualità o l’ateismo sono spesso visti (anche dalle minoranze etniche o religiose) come scelte personali e pertanto meno meritevoli di rispetto o protezione. Naturalmente, le persone LGBT non sono d’accordo e penso che lo stesso direbbero anche molti atei. La maggior parte degli atei ha riflettuto molto seriamente sulla religione e, sulla base della logica e dell’evidenza, ha deciso (a volte controvoglia) che Dio non esiste. Come mi disse una volta un ateo arabo in un’intervista, “Una volta che sei a conoscenza di qualcosa, non puoi disconoscerla”.
Il punto di quello che voglio dire è che prima di collaborare con le altre minoranze, gli LGBT e gli atei devono convincersi loro stessi che si trovano tutti dalla stessa parte.
D30: Dati i diversi temi che affronti nei tuoi tre libri, Arabi senza Dio, L’amore che non si può dire e What’s Really Wrong, c’è una conclusione generale che vorresti condividere con noi sulla diagnosi, ed eventualmente sulla cura, di quello che non va nel mondo arabo?
I miei libri affrontano diversi aspetti della vita nelle società arabe e i molti modi in cui la loro natura autoritaria restringe la libertà delle persone. Voglio dire che “curare” il Medio Oriente non è soltanto una questione di rovesciare dei regimi autocratici e tenere libere elezioni. Non si può avere un cambiamento politico senza averne anche uno sociale.
Arabi senza Dio – Intervista a Brian Whitaker
Immagine di Muhamad Nour – Forma Photo